intervista in progress
a cura di
Ilva De Bosis
IDB: Hai esordito
pubblicamente, come autore musicale, a cinquant’anni suonati. Come mai? hai
cominciato a scrivere tardi? il mondo discografico era refrattario
alle tue proposte?
MM: Be’, potrei dire che
ho esordito così
tardi per crearmi un passatempo senile in alternativa, che so, alle
bocce. In realtà, iniziai a scrivere canzoni a quindici anni (con
una piccola anticipazione a dodici), ma
solo intorno ai venticinque registrai un demo in parte riversato nei bonus tracks
del cd Allucinazioni amorose
(meno due). Non ero convinto del risultato, e lo proposi alla Fonit Cetra solo
dopo un decennio. Ottenni un'audizione come si
deve, c’era addirittura il direttore artistico.
Spiegai loro che
mi proponevo
come
autore
e non come esecutore,
data la
mia voce, che qualcuno definiva particolare ma che a me pareva
semplicemente afona.
Mi dissero
che c’era della roba interessante, che
anche la voce funzionava, ma che
dovevo proporre e aspettare, anche quattro, cinque anni finché non
si fosse trovato un buco per inserirmi. Mi parvero sinceri, anche se
si vedeva che avevano fretta di andare a pranzo - l’audizione si
svolgeva in tarda mattinata - e quel loro appetito famelico m’angosciò.
Dopo un anno mandai
altri pezzi, ma qui commisi un errore madornale: allegai alla cassetta
una lettera in cui giocavo col cognome del direttore. Era Felice Piccarreda (noto già negli anni ’60 come autore e produttore) e la
mia lettera cominciava così: “State per sposarvi? Non avete soldi e
dovete accontentarvi di un mini, magari spoglio? PICCARREDA,
piccoli arredamenti per sposi indigenti. PICCARREDA: Felice di
aiutarvi!”. Non seppi più nulla dalla Fonit. Ma forse non è stato
per la lettera, mi era sembrato un tipo spiritoso, magari erano i
miei pezzi che non gli andavano…
IDB: Forse dovevi
rivolgerti alle etichette minori, meno implicate nelle logiche di mercato…
MM: Lo feci. O
meglio, inviai i pezzi al mitico Amilcare Rambaldi, artefice
del Club Tenco. Ci arrivai quasi per caso tramite un conoscente, un
hotelier sanremese suo amico. Rambaldi mi rispose con commenti lusinghieri sul mio lavoro. Ma
concludeva col suggerimento di attendere e proporre, per il
Premio Tenco, altre canzoni, perché quelle incise sapevano un po' di
Sergio Caputo
e di Paolo Conte (gli avevo mandato i pezzi più plausibili, quelli
più singolari no). Altra microcrisi identitaria - e conseguente
stasi di qualche anno. Rambaldi morì nel frattempo, e io
non mi sono più fatto sentire dai suoi successori…
IDB: …torniamo ai
motivi del tuo tardivo esordio..
MM: Oltre alle
due occasioni mancate che ti ho detto, c’è senz’altro
un certo senso del limite: negli anni ’80 mi ero immerso nelle
canzoni di
Paolo Conte, così mi pareva difficile o inutile cercare di fare altro.
Poi pensavo: con tutti i musicisti eccezionali che fanno la fame,
devo farmi ascoltare proprio io? In ogni caso, diedi retta al
vecchio Amilcare e mi industriai ad acquisire uno stile mio, che attingesse
sì a sapori noti e amati, ma alla fine fosse riconoscibile, sia pure
senza venir meno a una vocazione eclettica. Quando ho creduto di
esserci riuscito, ho deciso di fare sul serio e ho trovato in
Angelo
Manuali, poeta prima ancora che editore, la disponibilità a
porre il mio lavoro sotto le ali di Bastogi. Un altro motivo
del mio ritardo sta nel fatto che dal 1977 al 2001, pur
continuando a comporre musica, mi dedicai alla saggistica, traendo
soddisfazioni dal mio lavoro: un volume tradotto in Russia da
una delle case editrici più attive a Mosca, la recensione di una
intera pagina sull’inserto culturale del Sole 24 Ore, la
collaborazione all’allestimento di uno special di RAISAT, e così via.
Mi sedetti sugli allori, come si suole dire. Ma le ricerche sulla
dimensione simbolica e in ambito religioso hanno poi generato
efflorescenze...
IDB: Vuoi dire
che credi in un influsso dell’ “armonia delle Sfere” su certi tuoi
pezzi?
MM: Sì, non mi
spiegherei, altrimenti, come la creazione di The Rose of The World,
Canzone d’inverno, Antico sogno per C., Sopra pensiero di te, per
citarne alcune, sia stata quasi istantanea (anche se poi
gli arrangiamenti ci sono costati settimane di lavoro). Certi pezzi
ti piovono dentro, in forma visuale prima che sonora. Non è semplice
spiegare il processo creativo sinestesico: i due sensi, vista e
udito (ai quali s’aggregano talora anche gli altri), sono
sollecitati a con-creare da un vertice extra-sensoriale, situato in
quella che tu, con uno stilema pitagorico e goethiano, hai chiamato
“armonia delle Sfere”. E’ un essere musicati dall’Alto, ma, bada,
non passivamente, perché ci si sente chiamati a tradurre
nell’udibile qualche frammento di quella trama sottile. Un altro
fenomeno singolare mi è accaduto scrivendo le diverse parti di Masonic Ritual
Rhapsody. Un’amica violinista, Angela Paduraru, mi aveva prestato una
valigia di trattati d’armonia (io ne avevo fatta poca, all’Istituto
Musicale “Achille Peri”); li ho studiati un po’, ma le soluzioni
venivano da sé, mi erano come prescritte nel punto di intersezione
tra l’io e l’Oltre. Circa metà della mia musica è nata in una specie di
trance lucida.
IDB: Altre fonti
di ispirazione?
MM: Mio figlio,
sopra tutto il resto. Le donne che mi hanno ispirato tenerezza e
quelle che mi hanno urtato. I versi e i
lamenti dei buoni animali, insomma il gemito del creato.
IDB: Che studi
musicali hai fatto?
MM: Irregolari. Iniziai a dodici anni con un maestro di chitarra
classica. Imparati i Jeux interdites, ambitissimi dai dilettanti
che aspiravano a qualche credibilità, smisi di andare a lezione,
convinto che il resto l’avrei fatto da me, anche la Chaconne di Bach.
Mi sbagliavo, ero troppo incostante. Però sviluppai una sorta di stile
country-rock, apprezzato da alcuni musicisti, che mi invitarono in sala d’incisione quando
avevo sui sedici-diciassette anni, come session man in erba.
L’ultimo anno del Liceo mi
lanciai, iscrivendomi a violoncello (chiesi di fare due anni in uno) e a composizione
insieme. Una follia. Feci il duplice anno di violoncello a stento, poi smisi
perché morì mio padre e io mi buttai negli studi universitari. L’unico
episodio successivo in qualche modo legato allo strumento ha del
surreale: ero alla stazione un mattino, andavo all’università,
quando vidi il violoncellista Franco Rossi del mitico “Quartetto Italiano”
(li avevo visti la sera prima in concerto). Mi notò, poggiò il cello
e si avvicinò: “Bruno, Bruno carissimo! Come stai?”, fece per abbracciarmi.
Gli dissi che io lo conoscevo e lo ammiravo, ma che non credevo di
chiamarmi Bruno. “Canino, no?”, chiese lui. “No”, ma sull’onda
dell’entusiasmo ci abbracciammo lo stesso. Mi aveva scambiato per il
pianista Bruno Canino; non era fisionomista Rossi, o era uno
distratto, da bravo genio. Chiarii il qui pro quo e i miei rapporti
col violoncello finirono lì.
IDB: … e con la
composizione?
Storia diversa:
lasciai perché i modi del docente mi davano fastidio. Ci faceva comporre dei frammenti, li
voleva atonali. Io, che pure avevo già ascoltato Schönberg, Berg,
addirittura Cage, scribacchiavo cosette politonali, insomma, tendevo al debussiano. Non c’era verso. Quando a lezione provava i miei
pezzi, fingeva di sdilinquirsi, si piegava e si contorceva
abbassando la testa fin quasi a toccare i tasti del pianoforte,
davanti agli altri studenti, che non erano affatto più dotati di me,
ma facevano tutto quello che voleva lui e ridacchiavano quando affettava pathos
sui miei esercizi. Mi girarono le pelotas e non mi ripresentai.
Tuttavia tenni i contatti con l'insegnante di
pianoforte complementare, il caro maestro Speroncini, un uomo fausto, e
qualche tempo dopo la laurea, verso la fine dei ’70, lo cercai per
riprendere. In due annetti sfilacciati arrivai alle Invenzioni a tre voci
di Bach, poi smisi per motivi di lavoro.
La mancanza d'esercizio mi ha fatto dimenticare molto, quasi tutto, anche perché
leggo la musica
lentamente (mentre scrivo abbastanza rapidamente). Dagli anni ’90 ho
lavorato su piano e chitarra soprattutto componendo e per poter
produrre un minimo di improvvisazione,
con l’aiuto di qualche manuale.
IDB: Quali sono
i tuoi modelli, o i tuoi punti di riferimento?
I primi songwriters che ho amato, dai dodici-tredici anni, sono stati
Lennon e McCartney, Ray Davies, Georges Brassens, in Italia Luigi
Tenco. Poi Jobim, Bacharach, Berlin, Kern e tanti altri. Quando ho
conosciuto Paolo Conte - anche di persona, cenando con lui il 12
agosto 1982 prima di un suo concerto al Campo Tocci di Reggio Emilia
- mi si è aperto un mondo. Un grande punto di riferimento
è Giorgio Conte, fine e terragno insieme. Ma, vedi, la pertinenza cosmica
della musica si riflette pure nei modelli. Possono essere ovunque,
noti e ignoti, le loro “onde” ti arrivano per le vie più diverse. Mi
sono accorto, ascoltando i canti degli uccelli dalla cucina di casa, che contengono riffs e frammenti melodici udibili in canzoni
famose (uno l'altro giorno faceva l'inizio di Meet Me Where They
Play The Blues!). Se n'era accorto anche Olivier Messiaen,
musicista e ornitologo. Così dicasi per certi antichi mãthra religiosi,
lanciano “aspersioni” sonore che vengono poi come captate da temi
musicali più recenti: in certe recitazioni della preghiera zoroastriana
Ahunvar la spola tra due note distanziate da un intervallo di
seconda anticipa di millenni il riff - più rauco, metrico e definito in senso tonale (nei mãthra
si fa uso copioso di quarti di tono, che diluiscono l’istanza
tonale) – di You Really
Got Me di Ray Davies. Insomma, le influenze sono molteplici,
prossime e remote. Le prime sei note di Penny Lane
richiamano pari pari quella canzone patriottica che fa “E l’Italia, e
l’Italia del mio cuore….”. Ovviamente il grande Paul non ne sapeva niente, ma
così va la musica.
IDB: Tornando a
te?…
Tornando a me,
ti ricordo che il mio ideale maestro di ritmica (ideale ma anche
reale, da quando l’ho conosciuto di persona scrivendo il libro sui
Gufi, e seguendolo talvolta in tour) è Lino Patruno: ascolta, se ti va,
Come in
un film americano, e sentirai una eco di lui. Ho preso da Lino
un amore assoluto per il primo jazz. Ho cercato di captare le altezze
del Duke Ellington "sinfonico" di Daydream (e anche del Daydream più semplice di
John Sebastian, uscito sempre nel 1966: Duke lo ascoltai a Bologna
nel ’69, John a Sarzana nel 2007); ho cantato con Bruno Lauzi a
cena, un anno e mezzo prima che morisse, traendo linfa da un paio
di begli inediti che ci fece sentire. Nel 1967 ero stato tramortito da Pete Townshend (Who) al Palasport di Bologna, e l’anno
dopo, sempre là, mi beccai qualche sputacchio di Jimi Hendrix da
sotto il palco. Non era tra i miei
preferiti, Jimi, ma lo stile della sua versione di Hey Joe resta
ineludibile. Come, in ben altro contesto creativo, il liederismo di Schubert,
che morì a trentun anni
e scrisse quel che scrisse, anche le cose più complesse,con la
leggerezza di una canzone. Mi sembra che Franz aleggi quando
armonizzo. Ah! la musica
è la fibra del paradiso, come dice Zarathushtra. O, come dice
Capitini, segno di compresenza dei morti e dei viventi.
IDB: … e di
amicizia, come quella creativa tra te e Andrea Ascolini…
MM: Certo.
Andrea è geniale. Alla genialità abbina una grande modestia e una
disponibilità unica. Ci conosciamo da quando avevamo quattordici
anni. A diciassette, come Michele & Andrea (la formula del duo
musicale allora era in voga), eseguimmo Scarborough Fair
Canticle, brano tradizionale reso alla grande da Simon & Garfunkel,
e I will dei Beatles (di Paul), a un party studentesco. Acustici, aulici
eravamo; quelli volevano ballare e ci fecero capire che dopo due
pezzi avremmo fatto meglio a cedere il palco a un gruppo più
metallico.
Ci sciogliemmo come duo. Ma poi Andrea m’aiutò a realizzare il primo
demo, a cui cooperarono musicisti di calibro come Paolo e Aldo
Gianolio, Luigi Manzi, Dante Torricelli, e negli anni ’80 produsse
ancora alcuni miei brani, rimasti nel cassetto. Nel frattempo
lavorava a incisioni di pezzi suoi, di canzoni italiane famose e
standards americani interpretati da Sandra Mongiovì, la sua
compagna, una gran voce e una altrettanto grande sensibilità
musicale. Qualche anno fa, dopo un bel po' che non ci sentivamo, lo
cercai, gli feci ascoltare una dozzina di nuovi brani e ricominciò
la sinergia tra noi, a livelli più alti di prima. Andrea ha creduto
nei miei pezzi, è stato decisivo negli arrangiamenti (spesso
"cocciuto”: come nella ricerca delle soluzioni timbriche in
Canzone d’Inverno, durata mesi). Spero che questa
sinergia continuerà. Tra i miei e i suoi abbiamo un altro centinaio di
canzoni e instrumentals da concretizzare!
IDB: Qualche
aspirazione? o ti accontenti di una nicchia?
MM: Guarda, a
parte l’esordio tardivo che non aiuta,
non ambisco alla popolarità per un semplice motivo: trovo pessimi i
gusti musicali correnti e non credo possano riscattarsi, dunque non
mi capta il plauso dei più, anzi, mi infastidisce; a quanto
sento, poi, molti discografici capiscono tanto di musica quanto io
di apicoltura. Mala tempora currunt, lo si è sempre detto, ma
musicalmente parlando è più vero che mai. Ci si esalta per deiezioni
inascoltabili, mi chiedo come facciano, è roba che arriva al naso
prima che all’orecchio, puzza di stantio. Questa è un'epoca di
stitichezza artistica. Il 97,5 % del rock attuale (statistica
Brownmark, cioè mia) è ignobile; il cantautorato langue in banali
tautologie, è noioso e auto-celebrativo, molte "novità" sono
disarmanti. Altro che nicchia, un forellino basta e avanza… e
poi oggi, con Internet, uno riesce a fare uscire qualcosa; pensa a
tutti quelli in gamba che in passato
non hanno mai potuto far conoscere il loro lavoro..
IDB: … ma ai
concerti di Paolo Conte i teatri sono pieni a uovo …
MM: Per
fortuna: è uno dei pochi creativi nel panorama della canzone.
Ma non illuderti: il 38,6 % (sempre statistica Brownmark) di chi va ai suoi concerti lo fa perché è
à la page, si salutano, si compiacciono, non si può mancare. Ma
chi c’era, di questi, tra i trecento che nell’agosto
1982 si riunirono al Campo Tocci per ascoltare Conte? Quanti
pagherebbero 80 euro di biglietto per andare a un concerto dell'altro
Conte,
Giorgio, il fratello fenomenale ma meno illustrato dai
media?
...e vita di note
IDB: Parliamo
allora un po' delle
tue canzoni.
MM: A che pro?
IDB: Non lo so, se non lo sai tu...
MM: Se ne può
parlare perché le canzoni hanno una propria biografia, voglio dire:
hanno dinamiche loro, solo in parte legate a quelle dell'autore (se
no parlarne sarebbe pura autoreferenzialità).
Allora comincio dalle origini: Nostra Signora
Televisione la scrissi quando avevo quindici anni, nei pomeriggi che
passavo al Teatro d'Arte & Studio di Auro Franzoni, tra libri su
Malcolm X e lp di canti sociali. La musica è alla Brassens, il testo sessantottino, ergo
antitelevisivo (pensa cosa si dovrebbe scrivere oggi!). Qualche
tempo dopo, ma sempre in quel periodo di crisi esistenziale -
a parte le cotte infelici, il suicidio di Tenco mi aveva colpito
molto, scopriva il dilemma del senso della vita - scrissi un pezzo per due voci e
chitarra, che
eseguivo con Andrea, su alcuni versi dal diario di Pavese: "All is the same, time has gone by /
Someday you came, someday you'll die...". Trentacinque anni dopo
l'ho orchestrato e inserito nelle prima parte di Masonic Ritual
Rhapsody col titolo Pity Would Flow From My Breast. In
questo segmento è confluito anche il tema della canzone E ho
visto il mare, che scrissi nel '71 e che piaceva a Alceste Campanile, un amico, assassinato nel 1975.
Mi chiedeva spesso di fargliela. A lui è
legata anche Victoria Station: parto per Londra, lui mi fa
vengo anch'io ma fra due giorni, ci vediamo a Victoria domenica
pomeriggio alle tre. Alle otto non s'era visto nessuno. Non venne mai, si
era messo con una ragazza e doveva coltivarla. Nel testo mi riferisco a
una donna, ma il bidone me l'aveva fatto lui, il
vecchio Alceste, casinista, creativo e generoso.
IDB :
Aria di randagismo, fa molto beat generation... hai
scritto anche una Ode a un randagio...
MM:
Il randagio
era in realtà il mio cagnolino Tom, che si perse un giorno nel marzo
del '71 e tornò, ferito da un'auto. Più che beat generation -
o se vuoi: nel contesto della sub-cultura beat di quegli
anni - il richiamo era alla compassione per gli animali,
esperienza personale amplificata dagli influssi indù e
buddhisti che i Beatles avevano divulgato. In quel periodo dedicai un
pezzo a Laika, la cagnetta russa morta nello spazio nel '57, una
storia che mi aveva colpito da bambino. Ma la musica di Laika
fu il tentativo acerbo di scrivere qualcosa da big
band, dopo aver sentito Duke Ellington a Bologna. Qualche
anno fa ho scritto l'arrangiamento; ora la sto riportando allo
scarno che compete alla povera Laika...
IDB: Ti occupavi
anche di gamberi...
MM: Ne mangiavo troppi, sì,
non avrei dovuto (per loro e per il colesterolo). Il blues del gambero valido è una sciocchezza in forma di rebus su una
scheggia di scala blues... il cabaret incontrato coi Gufi e con
Cochi e Renato persisteva...
IDB: Poi, però, segue
un periodo di canzoni "fatali"...
MM: ...
propiziate da richiami spirituali, che si svolgono in due successivi
brani di ispirazione rosacrociana: il primo è The Rose of The
World, sulla poesia di Yeats (lo eseguì molto bene Patricia Ann
Breeden, in un demo che realizzammo verso il 1980 nello studio Pattacini); il secondo si intitolava Christian Rosenkreuz
(dal nome del mitico fondatore della Confraternita), ma poi lo
rielaborai in Identikit, con un testo pieno di angoscia
per il male del mondo, e alla fine - in forma
strumentale - l'ho immesso in Masonic Ritual Rhapsody e
ripreso da solo come Virtue. Stessa sorte è toccata a un altro brano,
scritto nel 1976 per una morosa dell'epoca: era l'intreccio di tre
linee melodiche, che incidemmo con entusiasmo un pomeriggio d'estate a
casa mia, io, Andrea e un altro complice, complimentandoci ala
fine con noi
stessi, perché era venuto incantevole. Ma la signorina in
questione non si rivelò meritevole, era una traditrice,
allora il pezzo, ridotto ai minimi - e migliori - termini, passò
all'orchestrazione come instrumental e adesso si trova come
intermezzo anche nel cd Existenz.
Tornando agli influssi rosacrociani, nei
bonus tracks di Allucinazioni amorose ho inserito To A
Crimson Lady che è dance music elisabettiana, piovutami
dentro - come The Rose Of The World - in un baleno.
IDB: A proposito di
William Butler Yeats, il poeta riappare in Un giorno o l'altro me
ne vado in Irlanda.
MM: Sì, il
duplice intermezzo è costituito da versi suoi. La seconda parte
invita a celebrare la gloria dei secoli finiti nella polvere, di un
passato ideale che è in realtà un "oltretempo" sacro.
IDB: Yeats era un
autore "reazionario", come Kipling, di cui hai musicato la poesia
Mother O'Mine...
MM: E' una
definizione riduttiva. Kipling, fra l'altro, era un conservatore (non un
reazionario, la distinzione la trovi ne La filosofia della
reazione di Armando Plebe), ma Mother'O Mine c'entra poco
coi suoi panegirici dell'Impero Britannico. Quanto a Yeats,
detestava la banalità del "moderno", ma sul piano sociale non
difendeva il privilegio, anzi... Comunque, se alludi a una certa linea testuale nei miei pezzi di quel periodo,
hai ragione: la scoperta della via iniziatica mi portò a rivalutare
l'arcano e la traditio. Ciò era normale e giusto, se non
altro come antidoto alle mode. Si avverte anche nel testo semiserio
di Atlas (in cui vengono evocate la croce ansata egizia e Leinth,
custode della morte nel mondo etrusco) e in quello iperbolico de
Il boia, contrappunto scherzoso alle pagine delle
Serate di San Pietroburgo di De Maistre sulla figura
del boia. Diciamo che praticavo il paradosso nei confronti di un
certo progressismo falso. Lo stesso tentativo di entrare nei risvolti della
realtà si ritrova in Green Man, il pupazzo di rami, foglie, arbusti
(in antico detto anche Greene Kynge)
"sacrificato" nelle celebrazioni inglesi del maggio: ma qui è la
tenerezza a prevalere, per quella "Pasqua vegetale".
IDB: Poi, nella
seconda metà degli anni '70, sembra
esserci un ripiego intimistico...
MM: Coincide con una
permanenza in California, a Berkeley. Avevo una vita sociale intensa
e, proprio per questo, bisogno di solitudine. Berkeley Woman,
brano strumentale che ho incluso nei bonus tracks
di Allucinazioni amorose, nacque così, un mattino, nella
mia stanza, alla chitarra. Poi la incisi con Andrea Ascolini (ai
sax), Sergio Guidetti (alla batteria) e Dante Torricelli (al piano)
e divenne più "estroverso".
In realtà, mi mancava una certa donna
itala e la situazione si riflette ne Il ladro dell'amore: un
pomeriggio mi rintanai in un coffee-room e cercai di
carpire sguardi affettuosi dalle donne lì intorno, ma carpivo ben
poco, l'operazione divenne oziosa e mi spinse
in un temporaneo tedium vitae. Il testo de Il ladro
dell'amore mi sembra efficace. Segue un pezzo più lieve, Leah,
ballata che è, musicalmente, un tributo a Paul McCartney.
Ma in quel periodo, di ritorno dagli USA, mi dedicai allo studio
della spiritualità ebraica (kabbalah, chassidismo, lo Zohar, Buber,
Heschel), e così sgorgò Bereshit ("In principio", le
prime parole del Genesi), che incisi recitando
l'intero primo giorno della creazione in ebraico con un effetto di
potente eco
e lasciando poi l'esecuzione di piano a Dante Torricelli, che da par
suo, svolto il tema, si lanciò una serie di
improvvisazioni vitali, molto belle, da visibilio. Purtroppo
il demo è
andato perduto. Due anni fa, nel 2007, ho ripreso il pezzo, e al
posto delle note inimitabili di Dante ho scritto delle parti per archi,
abbastanza riuscite, mi pare. Col
titolo Let There Be Light ("Che la Luce sia") l'ho incluso
nella mia rapsodia massonica
IDB: Dall'80
all'85 c'è una fioritura creativa, anche se - come dicevi prima -
non usciva, perché eri preso dall'attività di saggista...
MM: Anni prematrimoniali, aria di vigilia, ricerca, domande, entusiasmi.
E tutto si fa musica. Come in ogni situazione quantitativa c'è
anche qualcosa di troppo o comunque di inessenziale (Per
dimenticare te o il calembour demenziale Tanto per
capirsi) . Di altri brani resto soddisfatto: Dove si è
cacciata Madeleine? (soprattutto con la chitarra che ci ho
aggiunto
recentemente), Cuore è il mio nome (canzone cool, direi),
Malta (densa), Al fondo del divino (bluesica,
poi ariosa), Come in un film americano (per la nostalgia che ci
ho infilato dentro), Indipendentemente dal vino, per quel
quid... un po' contiano e un po' no
IDB: Sono canzoni molto
diverse una dall'altra...
MM: Spirito rapsodico. E varietà d'idee e situazioni ispiratrici.
In Dove si è cacciata Madeleine? prendevo spunto dagli
annunci pubblicitari di incontri. Il retroterra era una vivace
canzone di Brel in cui, appunto... Madeleine n'arrive pas. La
mia, paradossale, contempla un finale truce quanto improbabile (e
ovviamente cabarettistico), ma
il concetto innocuo è l'incazzatura per un bidone,
soprattutto in un contesto già tarlato come quello del dating
cartaceo. Malta è il resoconto di un incubo dopo la rottura
di una relazione con una maltese. Avevo pensato di
mandarla, la canzone, al Ministero del Turismo di Malta, chissà che non
potesse essere lanciata nella mitica isola, ma col testo cupo che si
ritrova sarebbe stata forse controproducente.
Come in un film
americano, dicevo, è pura nostalgia, ma nell'inciso c'è della escatologia: sogno il perfezionamento del creato, quello che
nello Zoroastrismo si chiama frashkart, evocato qui
dall'immagine biblica dei quattro cavalieri dell'Apocalisse. Il senso
della nostalgia è nella speranza del ritrovarsi, coi padri, le
madri, Fred Buscaglione, Alberto Sordi, in una di quelle domeniche di
panna e di passione/ quando nessuno naufragava/ e intorno un
dolce paradiso respirava". L'inconsapevolezza infantile del
male potrebbe alludere alla sua finale scomparsa.
IDB: Come in un film
americano rinasce in Dolce tempo andato?
MM: Certo. Dolce
tempo andato è un leak di
nostalgia. C'è il quartiere Giardino, a Reggio, c'è il mare
a Jesolo nei primi anni '60, ma il quadro è quello di ogni infanzia passata
tra cortili e prati, ogni infanzia-rifugio, con la panna
montata in cielo e i raggi di sole che ti scaldano il midollo mentre
mangi pane e formaggio. Il tutto si chiude - o si apre sull'Oltre
-
con l'appendice di Vaudeville, ciondolando davanti al mare
aperto, all'ultima fermata della autobus esistenziale. Il ricordo può essere
sangue divino, come in Voglio tornare in
paradiso, ma se da un lato, diceva Pitagora, è il
principio della liberazione, dall'altro, secondo Nietzsche,
per agire - dunque, per vivere - bisogna dimenticare, almeno in certi casi.
Però è meglio non rimuovere, ma elaborare e poi
riporre, scaffalare.
IDB: Da certe strettoie
del reale si esce con il ricordo, ma anche con il surreale.
Mi pare che Molto strano appartenga a questo genere...
MM: Molto strano
salda tre pezzi: l'introduzione, che in origine era un gospel (l'avevo
intitolato Praise The Lord...); il bridge
strumentale, di cui la prima parte si ispira a un saltarello
medievale e attraverso un paio di modulazioni si tramuta in una
progressione che precipita in un riff di due accordi e in un
ingresso sospeso. Poi c'è il corpo del brano, che scrissi malamente
sulle orme di Si può fare della PFM (trascinante il solo
finale di Lucio Fabbri). Comunque è vero, Molto
strano ha un aspetto surreale, nell'impianto musicale e, se
vuoi, nel
testo, ma solo in quanto accidentale e sconclusionato. Tu hai
parlato del surreale come via di fuga, e anche un altro mio pezzo,
Jolly, va in quella direzione, ma c'è un surreale (o
sub-reale) da incubo, che aggrava la realtà. Un esempio di questo è
I camion di Abenstein. Avevo davanti a me due tir tedeschi, in
autostrada, di una ditta più o meno con quel nome, in un
giorno grigio e torrido. Mi venne in mente una non-storia, che è poi
il testo della canzone, su un riff ossessivo e una melodia
quasi implorante.
IDB: Come antidoto
riprendi una vena lieve, in Lady Yeti...
MM: Sì, un piaceva
l'idea di una canzone dinamica - per melodia, armonia e ritmo -
sulla fuga e la rincorsa di una fidanzata corpulenta che alla fine viene scambiata
per lo yeti, l'abominevole uomo delle nevi. Ma di
distensivo ci sono anche Sudore e poco più, dove lo squallore della fisicità è
"cantato via", O mangiare la minestra o saltare la
finestra, sulla simmetria tra ambizioni e compromessi.
IDM: Poi c'è un
grappolo di canzoni non facilmente decifrabili, presumo perché molto
personali.
MM: Tra l'84 e l'88
scrissi molte canzoni per la mia allora moglie. Ad esempio, Nello specchio
dell'amore, quando l'avevo appena conosciuta,
giovane e insicura. E' un pezzo
che amo, lo sento color cobalto, e il finale circense, con la trovata di
Andrea, stupenda, di una giostra d'archi rotanti e sognanti, prima che un
rumore di città riporti alla realtà, ne esalta l'innocenza. Sempre dedicata alla mia
alloramoglie è Dolce come il sonno del mare. Poi arrivò, fortemente
voluto, nostro figlio, e su due piedi scrissi Giubilando così.
Ma la canzone che esprime il mio stato di girasole nei suoi confronti è Perché sei di
sole, scritta quando - dopo la separazione di mia moglie - riuscimmo
ad abitare sempre insieme, io e lui. Il pezzo è della fine del '97, ma il riferimento a
Ray Davies, il grande amore musicale della mia adolescenza, è del 2004, quando andammo insieme a sentirlo al festival
di Peer,
in Belgio. Anche Duello si intreccia alla prima infanzia di
mio figlio, è una sfida
contro le aberrazioni sociali e mediatiche che già nella seconda
metà degli anni '80 rendevano più ardui, quando non donchisciotteschi, i ruoli di genitore
e educatore. Il duello, ovviamente, è morale, nella canzone si parla
di revolver (la parola ha un effetto eufonico), ma io detesto le
armi.
IDB: Per qualche
anno la produzione è calata...
MM: A parte il fatto
che dall'87 al '95 ho scritto molto in ambito saggistico e che, come
si diceva un tempo, non sono
Mandrake, in quel periodo la musica che ascoltavo più volentieri era la voce
di mio figlio. E poi avevo la sensazione di avere esaurito la linfa.
Sia Dolce tempo andato che Quando Keith Moon mi chiese una
Kent (ispirata a un fatto reale: al Palasport di Bologna,
gironzolando in attesa del concerto degli Who, io e il mio amico
Marco Moser (uno dei massimi esperti del beat anni '60), incontrammo il batterista, che ci chiese una sigaretta di
quella marca), sia l'una che l'altra, dicevo, sono canzoni retrò sul
piano musicale.
IDB: Dal '97 è
una cascata, e - da quel che ho sentito - la varietà di stili e temi cresce ancora.
Che succede?
MM: La ripresa fu attivata
da
mio figlio con Perché sei di sole, dove fra l'altro lui fa
il solo di chitarra (l'arrangiamento per big band di
Andrea è smagliante). Poi c'è
Canzone d'inverno, dedicata a una mia ex-alunna che mi scriveva
lettere esordendo con le parole "dolcissimo spirito angelico".
Un sentimento impossibile, per diversi motivi. La musica uscì di getto nel plenilunio
di dicembre del 2001. Ero in casa con mio figlio, fuori c'era
chiarore, e a ispirarmela fu il contrasto tra la dolcezza di quel
momento - tepore della casa, mio figlio, luce lunare - e lo stato
d'animo che vivevo per E.; solo molto tempo dopo aggiunsi le parole
per lei. La canzone ebbe dunque una genesi plurima. E
l'orchestrazione di Andrea, con l'introito che a tratti rimanda a tensioni
pendereckiane e i cori
viscerali, alla fine, la moltiplica.
Parlavi di varietà di stili e temi. Sul piano musicale direi di sì
(dal chôrinho di Mi faccio ridere scordando te, sotto
l'influsso di Chico Buarque, al beat secco di
Regalati una rosa marron o allo spirito cool di
Torbida dea, la distanza è notevole, tralasciando il
charleston di Io, vent'anni in più.). Su quello testuale meno: si tratta per lo più di cosiddetto amore, con varie facce:
soprattutto quelle beffarde (Torbida dea e Mi faccio
ridere scordando te, ispirate da una stessa donna, bugiarda) e
quelle decadenti, nel ciclo dedicato a C., una collega che
prometteva bene, sì, ma poi si rivelò ignobile e finì in balia di sé. Sono una manciata di
pezzi, il più originale mi sembra Sopra pensiero di te.
IDB: Riguarda C. anche
il "firmamento araucano" di E ogni momento ti amo?
MM: Sì, l'Araucania...
regno effimero fondato da un avvocato francese tra i Mapuche del
profondo Sud America nel 1860, ma qualcuno pretende che abbia piena
legittimità, c'è perfino un re "in esilio". Sembra una poesia di
Gérard de Nerval. Così è stato per quel sentimento verso C.
IDB: E Chak
Chak?
MM: Chak Chak è un
luogo di pellegrinaggio zoroastriano nella provincia di Yazd, un
santuario nella roccia in cui cade di continuo una goccia, che
simbolizza le lacrime dell'ultima principessa dell'Iran sassanide,
in fuga dai conquistatori arabi. E' un polo di grande suggestione,
sembra possedere una forza capace di cristallizzare le emozioni.
Non ci sono stato, ma in video ne ho fatto l'esperienza. E allora
partire per Chak Chak, come dico di voler fare in
questo pezzo dalle fibre jazzy, è una metafora del lasciarsi
alle spalle le meschinità e le sbavature sentimentali.
IDB: L'ultima
parola allo spirituale nell'arte, come diceva Kandinsky?
MM: Non può che
essere così, ed è suprema bellezza che sia così. Sono risalito alla
fede del Profeta Zarathushtra, che non a caso chiama "casa dei
canti" il paradiso, ma ho sempre creduto nell'universalismo
religioso, e cerco di captare il sacro in ogni musicalità.
Cristo, l'homo patiens divinizzato, è un tesoro di suoni
(il Verbo
giovanneo contiene ogni musica, così come il Mãthra
Spenta delle Gatha). Puoi vedere la morte nel corpo, nella
storia, nel rito, ma la musica non ti abbandona, anzi ti si genera dentro con
maggiore vitalità, come per compensare o dissolvere il gemito della natura. Mi è piovuta dentro una musica di
resurrezione, quella che sigilla Masonic Ritual Rhapsody.
Immaginavo Schubert aleggiare, fino a sentirlo, così ho ceduto
al passato, alla nostalgia, non ho fatto nulla per deviare quel
flusso verso sponde più attuali, meno "retoriche". Ma era giusto
così: Hiram's Raising è, per me, quel che doveva essere:
crocifissione musicale del corpo e sua metamorfosi
sottile.
IDB: Quale è stata,
finora, la tua massima gratificazione musicale?
MM: Il commento di
Giorgio Conte a Allucinazioni amorose (meno due). Mi ha
scritto: "Roba fina, non c'è che dire...Canzone
d'inverno è un capolavoro". Bontà sua, ma siccome Giorgio è
nell'Olimpo dei chansonniers,
puoi capire il bene che mi han fatto quelle parole. |